Un nuovo tipo di giornalismo è possibile. www.ilsegnonews.it

giovedì 31 maggio 2012

Paura del terremoto? Ci pensa lo sciacallaggio 2.0

«Paura del terremoto? Molliamo tutto e scappiamo a Santo Domingo!». Segue link alla pagina con le offerte dei voli per la Repubblica Dominicana. Ecco come Groupalia, il sito che offre sconti su una serie di prodotti e servizi si pronunciava pochi istanti dopo il terremoto che ha colpito l'Emilia. Una velocità da record. Uno scatto da veri velocisti della comunicazione. Anticipando tutto e tutti sul tempo. Semplice no? Come non pensarci prima. Ma la brillante iniziativa di marketing non è rimasta un'oasi nel deserto. Il miraggio dell'acqua facile nel bel caldo africano della crisi economica fa gola a tutti. Anche altri siti come "Prenotable" e "Brux sport" hanno pubblicato tweet simili: «Paura del terremoto? Esorcizzatela con un bel pranzetto in uno dei nostri 800 ristoranti» e «Da oggi puoi assorbire le vibrazioni dei terremoti con Brux». E così le tre aziende sono state prontamente subissate su Twitter di insulti e si sono trovate costrette a fornire delle scuse. In particolare Groupalia per voce di Andrea Gualtieri, Country Manager per l'Italia: "Sono davvero costernato per quanto accaduto e chiedo scusa alla popolazione colpita dal sisma per averla offesa. Si è trattato di un gesto irresponsabile dettato principalmente da superficialità e inesperienza. La catastrofe che ha colpito la popolazione dell'Emilia Romagna non può e non deve ovviamente essere strumentalizzata; è una disgrazia che merita tutto il nostro rispetto.
Mi scuso ancora e, per esprimere vicinanza e solidarietà alle popolazioni colpite dal terremoto, l'azienda ha deciso di effettuare una donazione alla Croce Rossa Italiana, da destinare alle persone coinvolte nel sisma. Inoltre, pubblicheremo nei prossimi giorni un deal solidale, per chiunque voglia essere di aiuto e fare una propria donazione". Non esiste, forse, un'etica anche nella comunicazione? Ma quale rispetto. Il silenzio non è preso in considerazione. Superficialità? Inesperienza? Stupidità e idiozia sarebbero più appropriate come cause. Squallore e ribrezzo gli effetti. Sciacalli. Ogni cosa ha il suo nome. Scusate lo sfogo. Anzi non scusatelo. Ma le scuse, quelle dell'azienda, hanno un profumo particolare. Inconfondibile. Quello del vil denaro. Voilà una piccola donazione e tutto è risolto. La faccia è salva. Il brand pure. Ma perché poi andare fino a Santo Domingo quando c'è un'applicazione in commercio che promette di avvertire quando sta per arrivare una scossa? Si chiama “Allarme Terremoto” e costa solo 1,59 euro. Peccato che ovviamente non funzioni e che i terremoti non si possano prevedere. Ma nonostante ciò è tra le 25 applicazioni più scaricate negli ultimi giorni. Ma non disperate. Se vi sembra che costi ancora troppo prima o poi ci penserà Groupalia a proporvela con ulteriore sconto. Resta solo da vedere lo slogan per la vendita. Aspettiamo. Con ansia e fiducia. Le premesse non mancano. Peccato solo non ci sia niente da ridere.



mercoledì 30 maggio 2012

Berlusconi è morto. Sogno o son desto?

Sogno o son desto? Sogno. Ma anche nel sogno si pensa a lui. Forse in modo perverso, forse in modo sadico. Ma in ogni modo si pensa a lui. Non importa se vivo o morto. Meglio morto dicono alcuni. A voi l'ardua sentenza. Ebbene nel bene o nel male, come sempre, è al centro dell'attenzione: Silvio Berlusconi.
Il corpo dell'ex premier, realizzato in gomma siliconica, capelli, stoffa, e' disteso nella teca in aspetto sognante. Ha il volto sorridente, la testa reclinata ''verso sinistra", "rimandando alla sua ossessiva avversione verso la cultura politica progressista da lui sempre indicata come comunista tout-court", spiegano gli autori. Ai piedi un paio di pantofole con Topolino, a testimoniare "il suo carattere gioviale, allegro e giullaresco". Non casuale, infine, la scelta del luogo della mostra: l'opera "volge lo sguardo sognante verso Palazzo Chigi dall'altro lato di Piazza Colonna. Guarda la dimora del Potere che lo ha visto suo abitatore. Andate a vederla, c'è tempo fino a oggi. Forse i vostri sogni potranno essere realizzati. Almeno con l'immaginazione. O magari potresti disperarvi per la sua scomparsa. Ma in ogni modo nonostante il forte realismo che contraddistingue la statua, Silvio, quello in pelle, gomma e ossa veglia ancora su di noi. E magari riderà convinto nel vedere questa singolare iniziativa. E poi il Cavaliere, quello vero, non potrebbe essere nella teca così. Si sentirebbe solo, desolato, triste. Meglio al suo fianco una riproduzione femminile. Sinuosa, delicata, morbida. A fargli compagnia. Così nella vita, così nell'eternità. Finchè morte non li separi. Amen.
Ah dimenticavo. Un minuto di silenzio per Mickey Mouse. Nessuno si è degnato di chiedergli se, almeno lui, è contento della compagnia del Cavaliere.

lunedì 28 maggio 2012

«Hai visto quello che è successo in Siria?» «Si si...con o senza zucchero?»

Si possono uccidere 140 persone in due giorni? Tra queste ci possono essere 49 bambini? Si può puntare la pistola sulla tempia di una donna e premere il grilletto, senza pietà? La risposta per tutte queste domande è quella che nessuno vorrebbe dare. Si.
La Siria si è macchiata per l'ennesima volta del sangue di innocenti. Nella giornata di sabato, le milizie fedeli al regime di Bashãr Al-Assad hanno attaccato la città di Hula, covo di presunti ribelli stando alle fonti ufficiali. Una strage: 108 vittime, tra cui 49 bambini e 34 donne uccisi a bruciapelo. Queste testimonianze arrivano dai sopravvissuti al massacro. Ma non è finita qui. Secondo alcuni esponenti delle opposizioni, domenica c'è stato un nuovo attacco presso la città di Hama. Stando alle fonti, quest'azione repressiva avrebbe causato la morte a 30 persone. Dall'inizio delle proteste contro il regime, il numero dei morti è terrificante: ha già abbondantemente superato le 10mila vittime. Da Damasco invece giungono smentite. Assad ha affermato di «essere completamente estraneo ai fatti». Le mani di Assad non sono sporche di sangue, sono semplicemente incrostate. Solo che non se ne è reso ancora conto.
In un contesto in cui la disinformazione e la censura dilagano, è complicato trovare la conferma di questi fatti. Come se non bastasse, i giornalisti sono i primi obiettivi delle truppe governative. Questo non vale solo per i reporter locali, ma anche per quelli internazionali. Solo nel 2012 le vittime del mondo dell'informazione sono sei. Due di loro sono francesi, una americana. Una battuta infelice ci sovviene: se non ci sono nostri connazionali, le tv italiane non ne parlano.
Ci si aspetterebbero risposte pesanti dall'Onu. Invece tante chiacchiere e pochi fatti. Soluzioni diverse vengono illustrate al Palazzo di Vetro. L'ultima in ordine cronologico sarebbe un'operazione in stile Yemen, ossia la sostituzione del vecchio leader – Assad nel caso siriano – con uno nuovo, appoggiato e approvato dalle Nazioni Unite. Nonostante questi “grandi” progetti, quello che risulta chiaro è che non hanno fretta. I morti non si contano più, per i bambini non c'è futuro e anche chi non si oppone al regime rischia la vita tutti i giorni. Tra un caffè e l'altro, forse, prenderanno una decisione. Se 10mila morti non sono una buona ragione, allora quale potrebbe essere? Ah già, che stupido...

domenica 27 maggio 2012

Trafugatori battono pedofili 30 a 9. E la Chiesa vince il campionato: della vergogna.


Alla fine il colpevole, come nei migliori gialli, è spesso il maggiordomo. A destare clamore è che questa volta il colpevole non è un maggiordomo ma il maggiordomo di casa Ratzinger. Il "Corvo del Vaticano" come è stato prontamente battezzato Paolo Gabriele, da sei anni a diretto servizio del Papa. Le colpe a suo carico sarebbero quelle di violazione della corrispondenza di un capo dello Stato e, dunque, attentato alla sicurezza del Paese, la Città del Vaticano. Fiumi di parole su di lui soprattutto da parte dei rappresentanti della Chiesa indignati e fortemente addolorati per quelle carte segrete uscite dall'Appartamento vaticano. Indignati e addolorati o più concretamente preoccupati per la vicenda dei "Vatican leaks"? Mai come adesso la Curia appare ferma e intenzionata a combattere coloro che attentano alla sicurezza pontificia. Parole dure, posizioni ferree, nessuno sconto e pena massima. Qualcuno addirittura ha avuto l'intenzione di rimettere il mandato poi, rassicurato dalla nascente Commissione di inchiesta sui corvi, ha cambiato idea. Vero Bertone? Un affronto questo che ha messo in ginocchio la Santa Sede. Addirittura secondo la stessa <<un vero e proprio colpo di stato>> che ha intaccato, forse irrimediabilmente, l'immagine della Chiesa. Ma cosa conterranno queste carte segrete del Papa? Quali i contenuti? La Chiesa, cerchia ristretta e club tra i più esclusivi al mondo, vacilla. È giunto il momento di maggior chiarezza e trasparenza. Ma intanto per Paolo Gabriele, il capro espiatorio della mala-Chiesa, arriverà presto il conto della giustizia: rischia trent'anni di carcere. Se la pena venisse confermata lo scandalo risulterebbe un altro. Come giustificare i 9 anni e sei mesi per Don Seppia il parroco di Sestri Ponente condannato per violenza sessuale su minore, tentata induzione alla prostituzione minorile e offerte plurime di droga? Per quanto il paragone sia solo potenziale, non essendo ancora stabilita la pena per Paolo Gabriele, è giustizia questa? Ecco il messaggio che passa tra le righe da parte dell'incrinata Chiesa: abusare di minori e reato più lieve rispetto ad una fuga di notizie. Se l'immagine è davvero compromessa la causa non è certo attribuibile al mistero della carte segrete. Se la credibilità della Santa Sede è andata perduta le cause sono senz'altro più profonde e senza dubbio meno allo scoperto. Il corvo è innocuo rispetto ad uccelli rapaci. E la Chiesa trema. O , forse, trama.


venerdì 25 maggio 2012

L'omertà della Chiesa: che (s)clero!


«Nell'ordinamento italiano il vescovo, non rivestendo la qualifica di pubblico ufficiale, né di incaricato di pubblico servizio, non ha l'obbligo giuridico di denunciare all'autorità giudiziaria statuale le notizie che abbia ricevuto in merito ai fatti illeciti di pedofilia». A parlare è il segretario generale della Cei (Conferenza Episcopale Italiana), monsignor Mariano Crociata. Quante volte ancora dobbiamo ascoltare queste dichiarazioni senza batter ciglio? Quante volte dobbiamo mettere la testa sotto la sabbia? Perché solo in Italia si possono fare certe affermazioni, senza nemmeno provare un filo di vergogna?
Ogni giorno ci scandalizziamo nel vedere fatti di cronaca nera e scandali vari proiettati senza sosta sul piccolo schermo. Eppure la pedofilia scatena sempre grande indignazione nell'opinione pubblica. Ci vuole una correzione, non sempre. Mai quando questa è associata al clero. Almeno nella nostra penisola. Ma se la pedofilia è praticata in altre culture scatta automaticamente lo sdegno. Meglio proiettare sempre verso l'esterno la quantità di odio giornaliera. Quante volte abbiamo condannato i musulmani? Non tanto per la pratica della poligamia, quanto per la possibilità data agli anziani di sposare ragazzine in odore di pubertà.
Non è accettabile che l'ordinamento ecclesiastico – che non coincide con quello italiano e il monsignor Crociata se ne farà una ragione – possegga ancora tali privilegi. Non siamo più nel Medioevo e i risultati ottenuti con l'affermazione di uno Stato di diritto non possono essere appallottolati e gettati in un cestino. I preti non sono una "super casta" che può operare in totale libertà, non-curandosi delle leggi e dando punizioni personali ad hoc. Allora perché accettare la coesistenza dell'ordinamento italiano e di quello ecclesiastico, e non tollerare il sistema dei rom? Anche questa comunità pretende autonomia e l'adozione di regole proprie ma, che piaccia o no, per il principio della sovranità territoriale dello Stato non è possibile. Non si tratta di moralità, filosofia o demagogia. In questa sede non si vuole delegittimare la figura del prete ne promuovere una guerra contro la Chiesa. Ma la violenza sessuale ai bambini è uno schifo e non può passare inosservato. È necessaria una pena seria e concreta. Troppo facile confessarsi a un vescovo ed essere spediti tra i monti a espiare i propri peccati. Si presenterebbero così due reati: oltre alla pedofilia, il concorso di reato del vescovo. Invece no. Tutto rimane come prima. Passate due settimane chi si ricorda più del prete pedofilo? La memoria rimane solo nei bambini a cui è stata strappata l'infanzia, prima dai loro aguzzini poi da chi è interessato a stendere un velo di omertà sulla vicenda.
Una notizia ci "allieta". Nei primi giorni di febbraio 2012, papa Benedetto XVI condannò nuovamente la pedofilia nell'ambiente cattolico. Durante il suo "regno" avrebbe potuto cambiare l'ordinamento, obbligando i vescovi a denunciare alle autorità competenti questi casi, ma si è guardato bene dal farlo. Troppo spesso il sommo pontefice di Roma ha parlato irresponsabilmente. Ma basta guardare il Vaticano e conoscere il vero messaggio cristiano per comprendere l'unica grande verità: quanta ipocrisia.

martedì 22 maggio 2012

Il terremoto è solo un'istantanea?

L'Italia trema ancora. Niente scossoni politici questa volta. Non si tratta nemmeno di mazzette, paghette, finanziamenti pubblici, tasse e tutto il resto. Purtroppo non è una metafora. Domenica scorsa, 20 maggio 2012, un terremoto ha colpito il ferrarese, causando terribili danni sia alle abitazioni che alle industrie. Senza considerare le vittime (se ne contano sette), tra cui quattro operai, che vanno a rimpolpare il numero delle morti sul lavoro che, quasi per sminuirne il valore, vengono chiamate "bianche".
Non so se vi è capitato di andare in edicola il giorno successivo. In caso contrario siete sempre in tempo per guardarvi una rassegna stampa online. Vi renderete conto di un particolare. Tutti i quotidiani hanno pubblicato in prima pagina una foto gigante dell'orologio della torre di Finale Emilia, spaccato a metà. Non si mette in dubbio l'impressionante impatto visivo dell'immagine. Lascia senza fiato. Invece i giornalisti il fiato l'hanno trovato, eccome! Troppo facile commentare artisticamente la foto. Qualche frase retorica, un po' di colore e les jeux sont faits. Anche un bambino sarebbe in grado di scrivere un pezzo toccante con di fianco il "mezzo orologio".
È necessaria però un'osservazione. Nessuno vuole mettere in dubbio il diritto di cronaca di cui il giornalista si avvale, soprattutto dopo un evento di questa portata. Il dramma che sta vivendo la popolazione coinvolta nella catastrofe non deve essere presa sotto banco. Chi se ne frega di queste comunali che hanno registrato il 60% di astensione. Parlare di rappresentanza politica in questi casi assume connotati ridicoli. Ma è inaccettabile il modo in cui i media sfruttino le calamità per ottenere introiti sempre maggiori. Carta di identi-libertà ha già illustrato come nulla sia cambiato all'Aquila nonostante il fiume di parole che inondò stampa e tv in quei giorni. Quando una telecamera è accesa tutti accorrono. Appena si spegne tutti si dileguano.
L'importanza delle istantanee nel giornalismo moderno è fuori discussione. Anzi, le foto e la vignette sono i primi elementi su cui cade l'occhio del lettore, quindi hanno una grande rilevanza. È la mercificazione delle tragedie ciò a cui siamo arrivati? I giornali per vendere non devono migliorare i contenuti, ma devono scovare la foto più spettacolare, il messaggio più immediato, la scena più toccante. Infatti sfogliando le pagine si trova tutto il repertorio necessario: un bambino che piange, una coppia di anziani infreddoliti, le tende degli sfollati, le macerie, qualche automobile distrutta. Niente di nuovo insomma. E se questo discorso vale per la carta stampata, figuriamoci per la televisione. Manna dal cielo. I vari "Pomeriggio cinque" e "La vita in diretta" si staranno sfregando le mani. Tra il terremoto e l'attentato di Brindisi avranno da riempire le puntate da qui fino a ferragosto. Che tristezza.

sabato 19 maggio 2012

Strage di Brindisi: un fatto anomalo?

Strage di Brindisi: poche ore dopo. Inizia il carosello di frasi fatte e preconfezionate da tirare fuori alla prima occasione utile. "Atto di indescrivibile gravità", "colpo al cuore del Paese", "delitto aberrante", "insieme senza bandiere", "siamo tutti brindisini", "capire chi è il nemico". Frasi di circostanza che lasciano il tempo che trovano. La mafia, è vero, attenta alla libertà e alla democrazia ma soprattutto lascia dei solchi devastanti all'interno delle famiglie colpite. Le affermazioni di coloro che dovrebbero rappresentarci istituzionalmente rappresentano una doppia ferita mortale. Una doppietta Stato-mafia che fa male. Un male lacerante e profondo. Perché anziché disperdersi in mille parole lo Stato non combatte la mafia? Domanda ingenua. Perché lo Stato molto spesso è sinonimo stesso di mafia. Fate attenzione. Lo Stato è sempre attento, con le sue presunte campagne in nome della legalità, a combattere le piccole realtà della criminalità, i pesci piccoli, la cosiddetta paranza. Si contrasta l'immigrazione, la merce contraffatta venduta nei mercati, i piccoli reati, lo spaccio al dettaglio di sostanze stupefacenti. Ma lo Stato non ha quasi mai dichiarato guerra esplicita contro la mafia. Questione di paura, di riverenza o di complicità? Difficile dirlo. Più facile prevedere la confluenza di tutti questi aspetti. Ogni tanto lo Stato per mantenere un minimo di credibilità e di potere istituzionale diffonde ai quattro venti l'arresto di un criminale appartenente alla mafia. Giusto per sbandierare la sua presunta lotta contro le associazioni di stampo mafioso. Un'occasione di autocelebrazione per gli organi di polizia nostrana che mostra così la sua vicinanza ai cittadini. Chi si è esposto direttamente al fine di combattere la malavita mafiosa ha dovuto rinunciare in prima persona alla propria libertà, alla propria vita. Saviano ne è un esempio. Vivente per adesso. Ma non è tutto. Un'altra affermazione del ministro dell'Interno Cancellieri contribuisce ad insinuare in me altre perplessità. Definire l'attentato di Brindisi come un “fatto anomalo” fa riflettere. Vile e subdolo poiché uccide le vite di giovani innocenti sarebbe più appropriato. Ma anomalo mi sembra fuori luogo. Siamo forse davanti al primo colpo inferto dalla mafia nei confronti di innocenti? Ben vengano, quindi, fiaccolate e manifestazioni in nome della lotta alla mafia promosse dai cittadini, la cui matrice provenga dal basso. La presa di coscienza e l'informazione in merito non sono mai abbastanza. Ma fermiamo ogni tentativo istituzionale, solamente di pura facciata, che tenti di contrastare la mafia. Se la mafia non la si sconfigge in breve tempo almeno promuoviamo un'azione concreta fin da adesso: fermiamo l'ipocrisia.


lunedì 14 maggio 2012

Un bel gioco (di Stato e mafia) dura poco

Slot, gratta e vinci, bingo, poker, lotterie sono entrate oramai da tempo nel nostro immaginario quotidiano. Questione di bravura e ancor più di fortuna. Ma questione, soprattutto, di carattere. Debole nel maggiore dei casi. Gli aspiranti vincitori non sono più una nicchia. Sono milioni di persone che spinti da un gioco che assume i tratti della compulsività più sfrenata buttano via fortune. Sono uomini, donne, studenti, pensionati. Talvolta finiscono in mezzo a una strada. In gioco non ci sono solo i risparmi e gli averi costruiti con sudore nel tempo. In ballo ci sono le persone care, quelle che accompagnano la nostra vita ogni giorno. Ma l'alienazione è più forte. Di tutto e di tutti. E allora la logica conseguenza è rappresentata da menzogne, furti, indebitamenti. Ma se qualcuno piange sul latte versato c'è chi ride: lo Stato. Il business nel gioco legale ha prodotto nel 2011 oltre 76 miliardi di euro di introiti. Alla faccia della crisi e di chi con fatica e sudore riesce a chiudere il bilancio familiare quantomeno in pari. Lo Stato è ora presente, come non mai, e cavallerescamente prende a braccetto i giocatori. In tempi nei quali la parola d'ordine è recessione economica lo Stato non ha badato a spese. Così in questo rassicurante scenario assistiamo passivi a pubblicità, spot incitanti il gioco nelle sue svariate e infinite forme. Ma non solo. L'Aams ha consegnato un dvd dal nome "Giovani e gioco" a 70 mila studenti italiani contenenti questa frase: "Evolve chi si prende una giusta dose di rischio, mentre e' punito chi non rischia mai o chi rischia troppo!" Logica conseguenza degli slogan a cui ci siamo tristemente abituati: "Vincere non è mai stato così facile", "Vinci spesso, vinci adesso" dove viene sottolineata la presunta facilità e frequenza di vincita. Presunta per l'appunto. Ma non disperate. E' lo stesso Stato che con cura e premurosità propria della miglior madre ci raccomanda di giocare, con prudenza, moderazione, senza esagerare. Ma che cosa è il giusto? Chi lo sa. O meglio chi conosce la risposta non apre bocca. Anzi incita. A gran voce. Noncurante che 800 mila persone sono dipendenti dal gioco e altri due milioni di giocatori sono a rischio. Una vera e propria malattia per alcuni: il GAP, gioco d'azzardo patologico. Ma anche in questo caso c'è una soluzione pronta. Lo stesso Stato che prima ti invita a bere il veleno e poi tenta di salvarti la vita, fornisce il suo apporto economico ad alcuni centri di assistenza e di recupero dei giocatori d'azzardo. Magnanimo. Nessuna seria prevenzione, nessun messaggio che urli a gran voce ai più fragili e deboli che il gioco non può e non deve essere la risposta a tutti i problemi. Ma non è tutto. Gli interessi statali nel gioco, che rappresenta buona parte del Pil nazionale, procedono di pari passo con quelli della mafia e della malavita. I clan riciclano denaro sporco e attraverso le vincite, molto spesso alterando le macchinette, possono giustificare l'acquisto di beni e attività commerciali.  In questo fertile terreno borderline dove la parola d'ordine è affari (sporchi) c'è proprio spazio per tutti. E il vincitore è uno solo.

venerdì 11 maggio 2012

Occidentalizzazione? No grazie, ho smesso


Quante volte abbiamo dovuto ascoltare, senza voler ribattere, più per quieto vivere che per disinteresse, descrizioni stereotipate sulle altre culture? Questi nel loro paese si spostano sui cammelli, puntano tutto sull'agricoltura, non sanno cos'è un personal computer, non sono civili, sono arretrati e così via. L'ostentata sicurezza con cui si eleva la cultura occidentale, considerata sinonimo di modernizzazione, è decisamente presuntuosa e inopportuna. Un excursus storico delle relazioni internazionali permette un'analisi più approfondita dell'argomento. In questo senso è utile il contributo di Samuel P. Huntington, celebre e discusso politologo statunitense, e del suo libro Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale.
La modernizzazzione non coincide affatto con l'occidentalizzazione, intesa come l'assimilazione di istituzioni, consuetudini e credenze tipiche del nostro mondo: l'eredità classica, il cristianesimo, le lingue europee, la separazione tra autorità spirituale e temporale, lo stato di diritto, il pluralismo sociale, i corpi rappresentativi e l'individualismo. La modernizzazione ha travolto l'Occidente, subendo un'accelerata dalla rivoluzione industriale in poi. La domanda è molto semplice: qualora i paesi non occidentali intendano percorrere la via della modernizzazione devono passare dall'occidentalizzazione?
Huntington propone una distinzione sulle reazioni dei paesi extra-europei all'Occidente, considerando distintamente occidentalizzazione e modernizzazione. La prima via è il rifiuto totale di entrambi i processi; la seconda è il cosiddetto kemalismo, ossia l'accoglienza di entrambi, rinunciando alla cultura del singolo paese; la terza soluzione è il riformismo, cioè il rifiuto dell'occidentalizzazione e l'avvio della modernizzazione, in particolare industrializzazione, urbanizzazione e istruzione. È interessante focalizzare l'attenzione sul kemalismo, che prende il nome da Mustafa Kemal Atatürk. Egli trasformò con la forza il califfato di Turchia in una repubblica, attraverso l'annullamento della cultura autoctona e sostituendola con la cultura occidentale. Il cambiamento riguardò più il costume che la politica. Kemal Atatürk isitituì il suffragio universale, il calendario gregoriano, l'alfabeto latino, laicizzò lo stato e proibì l'uso del fez. L'obiettivo era l'integrazione della Turchia con l'Occidente e tale progetto fu perseguito dai governi successivi. Il fine ultimo era l'accesso all'Unione Europea, dopo aver ottenuto il passepartout per il Palazzo di Vetro nel 1952. Ma Ankara ricevette soltanto un simpatico "ripassi la prossima volta". Tradita dall'occidente e traditrice della cultura musulmana (quella da cui era fuggita e che era la causa principale del rifiuto da parte dell'Ue, incapace di accettare uno stato islamico nel Vecchio Continente), la Turchia si trovò nel buio, scorgendo un bagliore di luce nella possibilità di allacciare rapporti con le repubbliche ex sovietiche centro asiatiche. In poche parole si è ritrovata sola alla fermata dell'autobus.
L'occidentalizzazione è davvero l'unica soluzione? Gli esempi di Cina e India potrebbero smentire questa ipotesi. Esse hanno intrapreso la terza strada illustrata da Huntington, quella del riformismo. E verrebbe da dire con successo, dati alla mano. Se un governo decide di cambiare la cultura di un'intera nazione da un giorno all'altro, deve comprendere quanti sacrifici si debbano addossare le persone comuni. Dimenticare la lingua, la religione, la cucina, le attività. La vita così com'era fino al giorno prima. Come se non bastasse, questo processo potrebbe anche degenerare se giudicato fallimentare nel lungo periodo. A quel punto l'esigenza di un ritorno alle origini potrebbe sfociare in un'azione violenta volta a cambiare il sistema, con gruppi disposti a pagare prezzi altissimi. Ed è quello che è successo in Turchia. Sono nati gruppi politici e militari, entrambi legati al fondamentalismo islamico, che hanno cercato di scardinare la porta che Kemal Atatürk aveva chiuso definitivamente: quella della cultura di un popolo irrimediabilmente legato a una religione, grazie al quale gli permetteva di avere una maggiore consapevolezza del concetto di esistenza. Dobbiamo davvero arrivare a questo?


Fonte: Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 1997.

martedì 8 maggio 2012

L'Europa ci ricasca: tornano i nazi!


L'Europa, nonostante la grave crisi finanziaria, ha accolto con trepidazione l'esito di alcune tornate elettorali, due su tutte. In Francia le elezioni presidenziali hanno consegnato l'Eliseo a François Hollande. Il candidato socialdemocratico ha strappato la presidenza a Nicolas Sarkozy, famoso compagno di risate di Angela Merkel, assumendo così un ruolo chiave nell'assetto politico, strategico e soprattutto economico dell'Unione Europea. In questo senso auguriamo buona fortuna al neo Président. Un altro dato però salta subito all'occhio. Al primo turno un partito su tutti, ottenendo un successo inaspettato, è stato in grado di rappresentare quella fetta di elettorato contraria alle scelte europeiste adottate dalla precedente amministrazione: il Front National. Il partito di Marine Le Pen ha colto l'insoddisfazione di quei cittadini stufi dell'europeizzazione, che preferirebbero delle politiche volte al rafforzamento dei mercati interni, portatori dei valori di appartenenza alla patria spesso sfociata in una chiusura delle frontiere culturali. Quella ideologia che viene comunemente e grezzamente denominata nazionalismo. Fortunatamente il partito sotto la guida di Marine si è staccato da quell'"estremismo mezzosangue" che l'aveva contraddistinto negli anni precedenti, quando alla guida c'era Jean-Marie Le Pen, padre dell'attuale segretario.
L'altra partita decisiva si è giocata in Grecia. Qui la situazione è decisamente più complicata. Non è possibile delineare un chiaro quadro politico, dato che la frammentazione partitica ha raggiunto livelli che nemmeno l'Italia della prima repubblica poteva permettersi. Un nuovo appuntamento elettorale sarebbe già in programma a giugno, così da evitare l'impasse: le direttive della Troika potrebbero essere seguite solo con un esecutivo forte e coeso. Ma il punto cruciale è un altro. Il partito neonazista Alba Dorata ha racimolato un 7%, superando la soglia d'accesso del 3%, ottenendo il biglietto valido per dei seggi al parlamento ellenico. Che sia un partito antieuropeista, può anche passare. Ma, guardando alle dichiarazioni dei suoi esponenti, c'è da preoccuparsi parecchio. «Siamo favorevoli a collocare mine antiuomo al confine greco-turco, giacché l'80% dell'immigrazione verso l'Europa passa da qui». Per sciogliere tutti i dubbi basterebbe, per pura curiosità, andare a vedere la bandiera del partito per comprendere che il richiamo nazista (loro preferiscono definirsi nazionalsocialisti) sia al centro del progetto politico.
L'Europa d'altronde ha dovuto subire negli ultimi anni l'ascesa dei movimenti di estrema destra, di chiara matrice xenofoba. L'Olanda e l'Ungheria ne sono testimoni recenti. Ma da dove nasce il bisogno di un rifugio nel nazionalismo oscuro? La crisi economica è certamente una giustificazione. Anche il nazismo e il fascismo affondarono le loro radici nel fango prodotto dalla crisi economica del '29. Se è vero, come qualcuno sostiene, che la storia è un ciclo destinato a ripetersi, allora siamo condannati a un ritorno di fiamma di queste ideologie? Oppure si tratta solo di un ripudio di quella globalizzazione e, nel nostro caso, di quella europeizzazione imposta nella vita e nei pensieri delle persone? O ancora è l'espressione multicolore dell'antipolitica che sta contagiando tutto il sistema Europa e non solo noi italiani? È difficile credere a quest'ultimo scenario, dato che il nostro caso è condizionato da altri elementi, ma se così fosse dobbiamo ritenerci fortunati che la nostra "degenerazione" sia approdata nel successo elettorale e sociale del MoVimento 5 Stelle e non in una rivisitazione fascio-comunista, tipico della vecchia scuola italiana.

domenica 6 maggio 2012

Che Carica...mento!

Genova. «Il nostro motto è voi pedalate e noi suoniamo». A parlare è il direttore della Banda di Piazza Caricamento, Davide Ferrari, durante il concerto organizzato venerdì 4 maggio al Teatro dell'Archivolto. «Il Ri-Ciclo Music non è solo un progetto che prevede l'alimentazione dell'impianto audio tramite l'energia dinamica prodotta dalle biciclette – prosegue Ferrari – ma l'obiettivo è anche di ricostruire strumenti con oggetti che si trovano per strada». Non è un caso che a un certo punto ci si accorge di un boccione dell'acqua utilizzato come percussione. In questo senso il termine Ri-Ciclo Music assume un doppio significato. A illustrare i risultati di questa invenzione è stato Hicham Lahyani, il co-responsabile del progetto, che tra un brano e l'altro trasmette un messaggio che viene letto davanti a tutta la platea: «Il consumo di questa sera è stato di 1 Chilowatt all'ora e le emissioni di CO2 sono pari a zero. Il teatro ringrazia per il risparmio». È l'obiettivo della Echo Art, ossia l'unione di musica ed ecologia.
Lo spettacolo è stato elettrizzante. Il pubblico finisce di prendere posto e le luci del teatro si spengono. Il sipario si apre e ciò che rivela il palco è curioso e, inevitabilmente, strano. Otto ciclisti, volontari del pubblico, sono in sella alle bici collegate all'impianto audio. Durante lo spettacolo i pedalatori si daranno il cambio con altre persone della platea, contribuendo a diffondere un grado di partecipazione collettiva molto elevato. La Banda di Piazza Caricamento fa il resto. E che resto!
Canto, ballo e musica. Ecco i tre segreti che svelano il successo di questo spettacolo. Il numero degli strumenti utilizzati non si può calcolare, passando dalla modernità della batteria alla tradizionalità del cajon, dal suono travolgente delle congas a quello psichedelico del thermin. I generi esplorati e ricercati non possono essere definiti. Sarebbe un'offesa al gruppo rinchiuderli in uno stile. La presenza all'interno del gruppo di ben dodici nazionalità differenti lascia intendere che anche la musica assumerà l'aspetto del multiculturalismo. Infatti le sensazioni suscitate sono diverse da canzone a canzone. Ogni singola esecuzione proietta un'immagine personale. Ora siamo in India e un minuto dopo ci ritroviamo in Marocco, passando dalla Grecia e riposando in Messico.
La conclusione è stata esplosiva con tutto il teatro in piedi a ballare. Si sa, il reggae difficilmente trattiene i muscoli del corpo, che si fanno prendere dal ritmo e lasciano scorrere quel senso di libertà nelle vene. Infine, come ultimo pezzo, la rivisitazione di "Rock the casbah" non ha lasciato scampo nemmeno per i più timorosi. All'uscita del teatro un inevitabile sorriso ci fa compagnia sulla via di casa. Ma anche molte riflessioni. La musica può unire le persone, la musica può far dimenticare le differenze, la musica può accompagnare mano nella mano in un nuovo mondo.

sabato 5 maggio 2012

Consumo ergo sono felice?

Consumismo, shopping, corse sfrenate alla ricerca dell'affare perfetto. Consumismo sinonimo di integralismo religioso. Non si può consumare. Si deve consumare. Nei centri commerciali eletti a luogo di culto, nell'intimità delle mura domestiche con un semplice clic, in ufficio, davanti alla tv. Davanti ai nostri occhi una cornucopia di beni e servizi: tutto quello che occorre è a portata di mano. Basta una telefonata, un sms, una pressione di un tasto e il numero della carta di credito. E il gioco è fatto. Insomma consumo sempre, solo e comunque. Ogni giorno, ogni ora senza limiti e restrizioni. Il tempo è imploso di pari passo con lo spazio ed ecco svelato il consumatore in tutta la sua nudità. Spogliato delle relazioni sociali sempre meno intense e spogliato dei guadagni. La pubblicità ha fatto tanto in tal senso ma la nostra passività, l'essere in completa balia di fronte al marketing ci ha portato alla deriva. Una domanda sorge spontanea: tutto ciò che compriamo è davvero indispensabile? O è un fastidioso e inutile orpello figlio del nostro  sfrenato desiderio di consumare e di avere tutto e subito? L'erba del vicino è sempre più verde. La voglia di emulare attraverso gli strumenti di consumo è ancora più verde. Eccoci così proiettati in una società che si avvale della velocità per soddisfare la nostra inguaribile sete di spese. Inoltre cadiamo ogni giorno nel tranello teso abilmente dalle cattedrali del consumo. La perdita del senso del tempo e dello spazio è costante: centri commerciali sempre più illuminati artificialmente e senza riferimenti dell'esterno, orologi vietati in determinati casinò, entrate dei centri commerciali ben visibili mentre le uscite appaiono indicate con meno precisione e frequenza. L'alterazione o l' eliminazione dello scorrere del tempo ci stordisce, ci rende più vulnerabili di fronte alle infinite possibilità di acquisto. I nuovi strumenti non sarebbero, però, possibili senza le innumerevoli innovazioni tecnologiche degli ultimi cinquant'anni. La Toys'R Us ha ben saputo coniugare il mutamento tecnologico alle esigenze dei più piccoli; a questi ultimi, all'interno delle loro catene di giocattoli, viene consegnato uno scanner manuale che, passato sui giocattoli di loro interesse, realizza una lista delle preferenze di ciascun bambino. Un'anagrafe computerizzata. Per la gioia di mamma e papà. Il tutto è amplificato e semplificato da un crescente uso delle carte di credito che ci fanno perdere la reale dimensione di quanto stiamo spendendo e di cosa stiamo acquistando. L'immediata conseguenza non può essere altro che un indebitamento. L'iperconsumismo non si accontenta più di spillarci i soldi dei risparmi di una vita, o dell'ultimo stipendio. No. Va oltre. E' interessato ai guadagni futuri. Ai nostri guadagni futuri. L'implicazione più importante è che noi tutti stiamo cadendo nel buco nero del consumo. Ci stiamo facendo adescare. Senza se e senza ma. Ma la vera questione è un'altra: la soddisfazione nell'acquisto di un bene o servizio è pressoché effimera. Mutevole e assolutamente pronta a rinascere in vista della novità di turno per poi morire poco dopo. Consumo ergo sono felice? No, certamente no. Le nostre soddisfazioni vanno ricercate altrove: nella famiglia, nel lavoro, nei regni naturali non mercificati. Valori di un passato che, forse, irrimediabilmente non c'è più. L'accezione è un'altra. Consumo ergo sono in mutande. Tristemente in mutande.

venerdì 4 maggio 2012

Storia di un bambino trasformato in mostro

Marco ha compiuto otto anni da poco più di un mese. I suoi ricordi sono confusi, annebbiati, incerti. Marco è tornato a casa dopo aver passato il pomeriggio al campetto con gli amici. Si lava, legge Topolino e si prepara per la cena. Era l'estate del 1991. Il papà di Marco accende la televisione, non ha voglia di parlare quella sera, è troppo stanco. Mette il telegiornale. Marco non ricorda su quale canale fosse, non ha molta importanza. C'è una notizia che sovrasta tutte le altre: lo sbarco della nave Vlora, con a bordo 12 mila profughi albanesi. Marco osserva la scatola mentre gli vengono bombardati in testa quelle immagini. L'imbarcazione è completamente ricoperta di persone. Marco viene investito da video, commenti, dichiarazioni. Marco vede personaggi politici piangere. Marco sente per la prima volta un'espressione che lo terrorizzerà per il resto della vita: "esodo biblico".
Gli anni passano, ma le televisioni continuano a trasmettere la stessa immagine. Certo, le navi sono più piccole, le chiamano "barconi" ora. Marco percepisce una cosa: più gli immigrati aumentano più aumentano i reati. Ci deve essere una connessione. Marco comincia ad avere paura degli albanesi. Ne trova uno per strada un giorno. Non è sicuro che sia albanese, ma sarà sicuramente uno slavo. Che differenza c'è? Non ci pensa due volte e cambia marciapiede.
Marco cresce e con lui l'intolleranza per gli immigrati clandestini, così come vengono chiamati dai media. Prima giocava a calcio coi suoi amici, ora passa il tempo a insultare un gruppo di marocchini dall'altra parte del parco. E già. Infatti le televisioni hanno smesso di parlare degli albanesi e si dedicano ad altre nazionalità. Marco è consapevole che gli stanno sulle palle tutti coloro che salgono su quei barconi per venire in Italia. Punto e basta.
Marco è grande ora e si dedica alla politica. Prima viene attratto dal fascismo poi, dato che comprende l'impossibilità di votare un partito morto sessant'anni prima, si avvicina a un partito che fonda la sua campagna politica sulla lotta all'immigrazione, la Lega Nord. Non importa che suo padre sia calabrese. Non importa che abbia una bandiera dell'Italia attaccata sopra il suo letto. Non importa che non sappia minimamente cosa sia il federalismo o la secessione. I manifesti elettorali con l'indiano sono abbastanza soddisfacenti per lui.
I ricordi continuano ad accavallarsi l'uno sopra l'altro. Marco si ricorda dell'11 settembre. Il pericolo, quello stesso pericolo che aveva percepito per tutti questi anni, si è fatto reale. Dei terroristi islamici hanno dirottato due o tre aerei e si sono schiantati sulle Twin Towers, facendo una strage. Da quel momento si aggiunge l'ennesimo rischio per la società occidentale, quello religioso. Il fondamentalismo, di cui Marco non aveva mai sentito parlare, si fa largo nella sua mente e scava dei tunnel che lo segneranno per il resto della sua vita. Approva le invasioni di quelle terre ostili. Guarda con stupore misto gioia le luci provocate dalle bombe sganciate su Baghdad. Ma non c'entra niente l'Iraq con le torri! Sono sempre musulmani, prevenire è meglio che curare, pensa Marco.
Gli anni continuano a passare e il pericolo continua a mutare. I vecchi "nemici" vengono sostituiti o affiancati da altri, questa volta provenienti da ogni angolo del mondo. Est Europa, Sud America, Medio Oriente, Maghreb, Asia e chi più ne ha più ne metta. Per non parlare dei Rom! Marco è schifato, non ne può più. Marco frequenta l'università e ritiene che la vera colpa sia della globalizzazione. Marco è razzista, ma di quelli che disprezzano da dentro. Non è violento. Lo è nella sua testa, ma non attaccherebbe mai uno straniero. Almeno non da solo.
Marco torna a casa una sera e accende la televisione. Si parla solo della "primavera araba" e delle inevitabili conseguenze. Sente per l'ennesima volta quella parola che ha segnato tutta la sua vita, "esodo biblico". Non ne può più. Si connette a internet ed entra in Facebook. Vomita il suo disprezzo sul web e si augura che quei maledetti barconi affondino. Marco esce a farsi una birra con gli amici quella sera. È stanco e confuso, troppe immagini hanno affollato la sua mente, troppe navi hanno solcato il mare italiano, troppe persone indesiderate sono arrivate nel suo paese. Marco non vede più individui, vede solo una massa indistinta. Uno vale l'altro. Mentre si fuma una sigaretta ne vede uno. La sua mente è vuota, il suo cuore no. Marco tira fuori il coltello. Marco odia, ora.

giovedì 3 maggio 2012

Calcio moderno: quando la follia indossa giacca e cravatta

Di "pure" follie il calcio è pieno. Colpi di tacco, rovesciate, scavetto. Il repertorio potrebbe andare avanti per giorni interi riportando alla memoria alcuni gesti che hanno reso leggendario questo sport. Appunto di sport si dovrebbe trattare. Il condizionale è d'obbligo. Ciò che è andato in scena ieri sera al Franchi di Firenze è un'altra follia in piena regola. Ma questa volta con un sapore diverso. Un incontro di boxe tra l'ormai ex-tecnico della Fiorentina Delio Rossi e un suo giocatore, Adem Ljajic. Il tutto avvenuto un attimo dopo la sostituzione di quest'ultimo. Con questo, però, non voglio dare vita all'ennesimo commento popolare che discerne alla perfezione ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Il mio non vuole essere un intervento paternalisco o da paladino della giustizia. Vuole essere solo un invito alla riflessione. Tutti i media hanno dato risalto alla vicenda con una certa ilarità per il curioso accaduto fino a spingersi ai limiti del grottesco. Come se il tutto fosse uno sketch comico o una parodia. Al massimo ci si è limitati al classico commento di circostanza che, con un certo stupore, attribuiva quel folle gesto ad una persona così pacata. Ma come - ci si chiedeva - come ha potuto Delio Rossi? Proprio lui? Forse ci si stupisce così tanto solo perché a compiere quello sgradevole gesto è un uomo in giacca e cravatta. Fosse stato un ultrà a rendersi complice di un comportamento simile si sarebbe prontamente parlato e scritto in altri termini. Più duri e decisi. Senza giustificazioni o attenuanti. E giù titoli e giudizi di valore: "assassini", "meritano la galera", "male del calcio". Solo per citarne alcuni. Frasi preconfezionate e pronte all'uso che i media custodiscono gelosamente nel cassetto pronte a farle riafforare con puntualità alla prima occasione utile. Per gli ultrà del Genoa, recentemente protagonisti di aver fatto sospendere per alcuni minuti il match tra la squadra rossoblù e il Siena si erano dette le peggio cose. Appoggiati dai Soloni del calcio e da tutti i protagonisti dell'informazione sportiva. Ma qual è la direzione del nostro calcio? Certamente lo sbando. Quello che fa notizia sono solo cazzotti, presidenti vulcanici, sputi in faccia, calcio scommesse, partite truccate, cori razzisti. Ci si è spinti fuori dal campo a ricercare notti brave, patenti ritirate, vizi e stravaganze di una categoria agiata. Come se il marcio che serpeggia sul rettangolo di gioco e nei palazzi che contano non bastasse. Mai una nota positiva. Mai un aspetto che richiami i veri valori di uno sport come il calcio che rotola a ritmo incalzante verso il baratro. Show must go on. Non c'è tempo per le iniziative di beneficenza a cui i tifosi danno il via quotidianamente. Non c'è la volontà di evidenziare come la partita e gli eventi concomitanti costituiscano spesso un' arena sociale di pura aggregazione e sano divertimento. Non c'è spazio per scrivere come nella recente alluvione che ha colpito Genova si siano ritrovati a spalare fianco a fianco gruppi ultrà appartenenti a diverse squadre. Certo il diverso colore della maglia in certi casi non ha ragione di esistere. Ma nella società in cui siamo, imperniata da una non-cultura, anche questo, in fondo fa notizia.

mercoledì 2 maggio 2012

Il divario digitale: tecnologia e...acciughe

La tecnologia non è come le acciughe, che alcuni possono amare e altri odiare, nè come il diritto all'aborto, che vede favorevoli e contrari. Piuttosto, è una caratteristica indelebile del nostro ambiente culturale - qualcosa di complesso che dobbiamo sforzarci di capire in tutte le sue sfumature di grigio. Così Andrew Shapiro, assistente segretario di Stato americano per gli Affari si era espresso sulla complessità delle innovazioni tecnologiche (TIC). La diffusione localizzata di queste sta velocemente amplificando lo squilibrio esistente tra Paesi sviluppati e Paesi poveri. Ecco apparire di fronte a noi il fenomeno del divario digitale. Perché questa diversità esistente tra chi ha reale accesso alle tecnologie e chi ne è escluso è così importante? Kofi Annan già nel 1999, agli albori del digital divide, aveva intuito la reale portata del fenomeno: a questa gente mancano molte cose: cibo, lavoro, abitazione, assistenza medica e acqua potabile. Oggi essere tagliati fuori dai mezzi di telecomunicazione di base è una difficoltà grave quasi quanto le altre privazioni. Le sue esternazioni avevano fatto scalpore. Ma come si fa - ci si era chiesti - a comparare la fame del mondo e la mancanza di adeguate strutture sanitarie alla carenza di accesso alla tecnologia e all'informazione? Tutto ciò pareva fuori luogo. Kofi Annan? Un pazzo. Ma ora, a oltre dieci anni di distanza, si capisce che il fenomeno del digital divide, con tutta la sua complessità, può portare alla riduzione del reale squilibrio socio-economico tra i Paesi del Nord e del Sud del mondo. Ma quali sono i reali vantaggi? L'investimento in nuove tecnologie potrebbe ridurre l'analfabetismo, aumentare l'istruzione, migliorare le strutture sanitarie e offrire strumenti concreti di sviluppo. Certo la riduzione della difformità esistente non è la soluzione di tutti i mali. Magari fosse una panacea. Tutti saremmo pronti ad invocarla come manna dal cielo. Ma occorre considerare un nuovo aspetto. Occorre girare interno al fenomeno del divario digitale cercando di coglierne le mille sfacettature. La sua riduzione è altresì sinonimo di democrazia digitale. Tutti dovrebbero avere la possibilità di accedere liberamente alla società dell'informazione. Senza restrizioni, senza limitazioni, senza censure. Anche così si può progredire. La strada che porta al progresso passa anche per il diritto ad informarsi. Certo non ci si nutre di informazione. Ma di libertà, in qualche modo, ci si può dissetare. Anche con un certo gusto.